Eravamo in viaggio già da
diverse ore, quando cedetti i comandi al mio copilota. Dovetti svegliarlo
rudemente, perché le emozioni della partenza e la tranquillità del viaggio
avevano avuto l’effetto di far precipitare lui e metà della squadra in un sonno
profondo.
Sasaki Hiroshi si svegliò
stiracchiandosi e strofinandosi gli occhi cisposi.
Siamo arrivati,
Capitano? mi chiese ammiccando, col suo forte accento di Hokkaido.
Certo che no! sbottai.
La stanchezza aveva sempre avuto su di me un effetto più che deleterio. Stiamo sorvolando l’oceano e se avessi la cortesia di svegliarti , potrei
riposare un poco anche io.
Agli ordini! rispose
Hiroshi sarcastico. Non avrei permesso a nessuno di usare quel tono, ma le
numerose missioni compiute insieme ci avevano legato tanto da non essere più
capitano e copilota, ma quasi fratelli.
Una volta ragguagliato Hiroshi
sulla nostra posizione, gli ricordai la rotta da seguire e di chiamarmi dopo
tre ore, in modo da potergli dare il cambio. Avremmo continuato così fino alla
meta, in modo da essere entrambe riposati ed al massimo dell’efficienza.
Mi alzai dal sedile di comando
accarezzando con un dito la fotografia di Sato Harumi la mia fidanzata, che mi aveva atteso per così tanti anni
mentre io ero impegnato in guerra. Le avevo scritto una lettera prima di
partire. Quanto l’amavo!
Raggiunsi stancamente i sedili
nella parte centrale dell’aereo, che erano reclinabili proprio per permettere
un riposo confortevole. D’altra parte ero talmente stanco che avrei dormito
anche appoggiato ad un lavandino!
Mi sedetti accanto a Yamakuro
Takao, l’autore di questo capolavoro di ingegneria. Aveva personalmente
progettato e realizzato tutte le modifiche dell’aeromobile Nakajima G5N Shinzan
che ci avrebbero permesso non solo di attraversare l’oceano senza scalo, ma
anche di completare la nostra missione con la precisione di un chirurgo. Aveva
aumentato il serbatoio, creato impianti per il raffreddamento dei motori,
aumentato i flap e la portanza dell’aereo, fino a renderlo maneggiabile come
un’automobile. Avremmo puntato il bersaglio e colpito senza il minimo errore.
Una volta avevo notato Takao
accarezzare distrattamente una ruota del carrello del nostro bombardiere e
mormorare qualcosa, nel tipico atteggiamento di un innamorato. Questi ingegneri
hanno davvero uno strano rapporto con le loro macchine! Takao svolgeva
anche la funzione di addetto al radar ed alle comunicazioni, mentre
l’artigliere Fukuoka si sarebbe preoccupato di Nekomata.
Nekomata era ciò che stavamo
trasportando. Attraverso i cieli e sopra le onde. Nekomata sarebbe arrivato al
suo obiettivo, ponendo termine a questa terribile guerra. Il Giappone avrebbe
trionfato sull’America e avrebbe dominato l’Oceano e metà del pianeta Terra.
Nekomata era una bomba. Atomica.
In quegli stessi giorni anche gli alleati tedeschi avrebbero sganciato bombe
simili su Londra e Mosca. La guerra sarebbe terminata in un tripudio di fuoco.
Il sole avrebbe visto nascere sulla Terra i suoi stessi figli, mentre i nostri
nemici sarebbero capitolati senza mai più risollevarsi.
Il piano era semplice e ardito
allo stesso tempo. Ci saremmo diretti verso gli Stati Uniti d’America con una
rotta ad arco, in modo da evitare più possibile la flotta nemica con la sua
contraerea. Una volta giunti nello spazio aereo americano, il nostro obiettivo
sarebbe stato il parco di Yellowstone. Perchè proprio Yellowstone? I nostri
scienziati ci avevano indicato il cratere di Mammoth Hot Spring come un punto
debole della crosta terrestre in territorio americano. Se i loro calcoli
fossero stati esatti, e su questo ci si poteva scommettere, la crosta terrestre
lì era sottile come una foglia secca. L’impatto della bomba e la sua forza
esplosiva avrebbero creato una frattura di un’importanza tale da sconvolgere
gli States, che avrebbero dovuto dichiarare la resa per permettere all’esercito
di risolvere i problemi in patria.
Il Giappone avrebbe così
esteso la sua influenza fino alle coste americane, se non oltre, e poi con un
fronte finalmente silente, avrebbe potuto terminare la conquista dell’Asia
orientale e meridionale. Sicuramente gli australiani, perdendo il loro alleato
più potente, si sarebbero arresi e sottomessi all’Imperatore.
Così l’azione di quattro
uomini avrebbe risolto il conflitto.
Ero fiero del compito affidatomi.
Appena mi stesi sul sedile mi
addormentai, anche se i sogni mi impedirono di riposare.
Visioni tormentate di uomini e
donne in fuga da un orrore terribile si affollavano nella mia mente. Mi
sembrava di essere fermo sulla soglia di un evento terrificante. Loro correvano
nella mia direzione, in fuga. Mentre mi superavano vedevo i loro volti straziati
e le loro espressioni di panico. Alcune donne portavano al seno dei bambini
piccoli, mentre altre tenevano per mano dei ragazzetti tutti pelle e ossa dagli
occhi incavati e dalla pelle grigiastra, che a stento avrei riconosciuto come
persone.
Improvvisamente all’orizzonte
vidi una luce accecante e un istante dopo un’ondata di calore mi investì,
lacerandomi la pelle. Il calore era così insopportabile e il dolore delle mie
carni bruciate così lacerante che mi svegliai di soprassalto, ansante e
grondante sudore.
Dovetti aver urlato, perchè
gli altri mi guardavano spaventati a loro volta.
Tutto bene, Capitano? mi chiese Hiroshi dal posto di comando.
Si, maledizione, risposi con il sapore della bile che mi
inacidiva la bocca. È stato solo un sogno. Cercavo di ricordare a me
stesso che solo di un sogno si era trattato, anche se l’inquietudine che mi aveva
serrato l’anima in una gelida morsa non voleva andarsene.
Bevvi un sorso d’acqua e
affiancai Hiroshi.
Ha ancora tempo per
riposare Capitano, mi disse sollecito, probabilmente notando l’espressione
stravolta sul mio viso.
Non importa Hiroshi, credo
che non riuscirei più a dormire, comunque grazie. Maledetto Tofu! Aggiunsi
poi a mo’ di scusa, perchè mi vergognavo molto di aver mostrato una simile
debolezza.
Le ore passavano con una
lentezza esasperante.
Il silenzio radio che ci
eravamo imposti per non rischiare intercettazioni e la via totalmente sgombra
di pericoli, ci aveva lasciato praticamente liberi da ogni dovere. Per
mantenere la rotta ci bastava solo qualche occhiata alla bussola e
all’altimetro.
Fukuoka tirò fuori
inaspettatamente una tavoletta per il Go con due sacchetti di pietre bianche e
nere. Takao subito lo sfidò. Dopo aver preso il sacchetto di pietre nere,
cominciò a disporle sul goban.
La partita durò quasi un’ora e
vide la vittoria di Fukuoka, anche se di stretta misura. A quel punto mi sentì
in dovere di brindare con un bicchierino di saké che mi ero portato a bordo
all’insaputa dei miei superiori.
Il liquore caldo ci rinvigorì
e tutti ci sfidammo in quell’antico gioco di strategia.
Alla fine vinse il sergente
Fukuoka al quale spettò una doppia razione di saké.
Dopo alcune ore finalmente
giungemmo in vista del territorio americano.
La linea della costa si
profilava all’orizzonte come una bassa nuvola tempestosa. L’alba ormai prossima
colorava il cielo di un rosso intenso. Salutammo il sole sentendoci veramente i
suoi figli prediletti. Amaterasu ci baciava dolcemente coi suoi raggi e non
potevamo che prenderlo come un dolce incoraggiamento.
Dalla conformazione del
territorio e dal calcolo della nostra posizione capimmo di essere un po’ troppo
a nord. Quasi in territorio canadese. Decidemmo allora di penetrare nello
spazio aereo di quel Paese per evitare l’agguerrita contraerea americana.
Fu una buona decisione perchè
non incontrammo nessuna resistenza. Quando giungemmo alle pendici occidentali
delle montagne rocciose virammo verso sud alzandoci di quota. Seguimmo la
dorsale montuosa fino al territorio americano.
I nostri aerei spia avevano
mappato il territorio con una certa precisione, che ci permise dopo alcune
rilevazioni di capire esattamente la nostra posizione.
Sotto di noi scorreva il territorio
del Montana, ma non era quello il nostro obiettivo.
Dopo circa 26 ore di volo
consecutive fummo in vista dell’obiettivo: i crateri del parco di Yellowstone.
Il nostro compito sarebbe
stato quello di far esplodere la bomba Nekomata nel Mammoth Hot Spring, la più
grande delle bocche eruttive del parco. Lì l’ordigno avrebbe dato il via ad una
reazione a catena che avrebbe fatto risvegliare il vulcano addormentato sotto
le montagne. I nostri scienziati avevano impiegato anni per rubare queste informazioni
agli americani. Innumerevoli spie erano morte, per portare queste informazioni
ed ora, grazie a noi, il frutto di un lavoro tanto impegnativo era pronto a
cadere nelle mani dell’Impero del Sole.
Mi rivolsi ai miei compagni di
viaggio:
Signori, noi tutti siamo
giunti fin qui per portare a termine un’azione che non esito a definire eroica.
Il nostro sacrificio sarà ricordato nei secoli. Gli Imperatori accenderanno
incensi ricordando i nostri nomi, resi immortali dalle nostre gesta. Vi prego
di andare ai vostri posti. Stiamo per scrivere la storia!
Con i petti colmi di
emozionato orgoglio ognuno si dispose al suo posto.
Fukuoka si sedette sul suo
sedile. Notai che chinò il capo e si raccolse in una silenziosa preghiera. La
sua figura ebbe un tremito, quasi che sentisse su di sé il peso del mondo
intero.
Io mi avvicinai alla cloche e
con lo sguardo cercai il volto sorridente di Sato, così bella e spensierata,
poi iniziai la discesa che ci avrebbe portato al nostro obiettivo.
Dopo alcuni minuti di volo, Hiroshi
spezzò il silenzio annunciando: Eccolo lì!
Il cratere si apriva lungo una vallata immersa nel verde
delle foreste di conifere. Il fumo sulfureo che si alzava dalle pozze
gorgoglianti era ben visibile nel freddo del mattino di montagna. Alcuni uccelli
rapaci si stavano mollemente facendo trasportare dalle correnti ascensionali,
in cerca di una facile preda.
Tutti scattarono d’improvviso,
ripetendo per l’ultima fatale volta ognuno i propri compiti.
Io posizionai il velivolo su
un piano orizzontale a circa cinquecento metri dal suolo nello stretto vallone che
portava alle bocche eruttive. Circa due km prima dell’obiettivo.
Fukuoka si spostò alla
posizione di lancio. Non aveva mai mancato il suo obiettivo in tutte le prove
che avevamo fatto. Quando un giorno gli chiesi come diavolo facesse, lui mi
ripose che semplicemente chiudeva gli occhi e sentiva il momento. Non so come
facesse, ma era bravissimo.
A circa millecinquecento metri
dall’obiettivo Hiroshi collegò un registratore e diffuse la musica celestiale
dell’inno dell’Impero del Sole. I nostri cuori erano gonfi di orgoglio e di
adrenalina.
Mille metri. Ci siamo,
ragazzi. Siate pronti e orgogliosi di servire gli dei del Giappone. Ecco la
gloria immortale!
Cinquecento metri. Fukuoka sganciò la
bomba che si staccò dal suo alloggio con un ronzio mesto e scivolò fuori dalla
stiva, compiendo una lenta caduta parabolica verso i geyser.
Zero metri. La bomba penetrò
nella cavità accanto al geyser, scavando una fossa di quasi venti metri nel suolo.
Potemmo sentire l’impatto dalla nostra posizione.
Quando fummo quasi a un
chilometro dal punto di contatto, un rombo inaudito si levò dalla terra. Tutti ci
voltammo pieni di terrore, mai avevamo pensato che l’effetto sarebbe stato di
tale immensa potenza.
Diedi gas ai motori, tirando
la cloche per guadagnare quota, mentre insieme agli altri mi voltai per
osservare quel terribile spettacolo.
La terra si stava gonfiando,
come una immensa bolla. Intanto il terreno tutto intorno al cratere formato
dalla bomba cominciava a tremare e sussultare. D’un tratto tutto si illuminò di
una luce accecante e subito dopo la bolla esplose in un’immensa colonna di
fuoco e magma incandescente.
L’onda d’urto ci raggiunse,
percuotendo l’aereo, svellendo le lamiere della fusoliera e delle ali. Persi
il controllo e mollai i comandi.
Dietro di me sentì Fukuoka e
Takao che urlavano, mentre Hiroshi imprecava violentemente.
Non sarebbe dovuto andare
così.
Qualcosa non aveva funzionato
a dovere oppure qualche calcolo era stato sbagliato.
Guardai un ultima volta la
foto di Sato, che si stava accartocciando per l’immenso calore. Poi, insieme ai
miei compagni, morì.