Dopo che il Signor Sergio se ne è andato, mi vergogno a dirlo, apro le
finestre e cambio l’aria dell’ufficio. Empatia, si. Quasi affetto, forse. Però
a tutto c’è un limite.
L’aria del mattino è fredda. Mi aiuta a schiarirmi le idee. Getto
un’occhiata all’orologio ma vedo che è troppo presto per andare al bar, così mi
siedo sbuffando alla scrivania e attacco la pila delle scartoffie da smaltire. È
parte del mio dovere.
Mi scopro più volte a guardare le lancette immobili. Il tempo sembra
essersi fossilizzato. Leggo senza capire mentre la mia mente viaggia in altri
luoghi. Le parole di quei rapporti non mi dicono nulla mentre i pensieri vagano
incontrollati. Troppe volte i miei ricordi sono invasi dal sapore nero della
paura. Troppe volte ho sentito il tocco gelido dell’ignoto. E quella risata
ancora mi perseguita, senza darmi la speranza di venirne a capo.
Apro il cassetto chiuso a chiave. Prendo la bottiglia e tiro un lungo
sorso di whiskey. Non dovrei, lo so.
Così arriva l’ora. Il buio ha invaso le strade ormai. Il freddo si è
fatto ancora più feroce. Non importa. L’affronto per andare al bar. Al mio bar.
I neon rossi sono sempre lì, non tutti funzionano. Cazzo. Si deciderà
prima o poi a sistemarli? L’insegna lampeggia Endì’s. Ma si illuminano solo le
prime tre. È la fine, forse.
Entro.
Vicino alla finestra una figura solitaria è illuminata di rosso. Tiene
in bocca una sigaretta home made. Sul tavolo fogli e un bicchiere mezzo pieno
di liquido giallastro. Ghiaccio mezzo sciolto.
Al bancone sono seduti due tizi, che in silenzio sorbiscono la loro
dose di inutili sogni. Di là dal banco il barman lustra qualcosa. Senza
ottenere un gran risultato, però.
Alza gli occhi e mi guarda. Ehi, dice.
Ciao Endi, rispondo. Hai voglia di quattro chiacchiere?
Non molto, tenente.
Nel locale una musica strana si diffonde come miele nell’acqua. Wish
you where here, dicono di Syd. Il tizio che era seduto alla finestra sta
tornando al suo tavolo dopo aver dato da mangiare qualche centesimo al Juke
Box.
Mi siedo al banco. Endi mi serve un whiskey e una birra.
All’americana.
Allora, dico, è sparito un tizio. Un barbone. Mi vergogno subito di
aver usato quel termine. Ma tale è. O era.
Si faceva chiamare Lucky il fortunato. Pare che spesso girasse insieme
ad un altro tizio di nome Sergio. Lucky è così e così (lo descrivo) e Sergio
così e cosà.
Ah, fa Endi col suo accento. Non mi sono nuovi. Mi volta le spalle.
Guarda la parete dietro il banco che è tappezzata da fotografie. Sono quei
bocconi di mondo che lui ha scelto e che si tiene stretti. Così da assaporarli
con calma. E magari condividerli. In una di queste foto due uomini sono vicini,
nel freddo. Uno più vecchio. Sono loro? dice Endi. Si, rispondo, ma la foto è
vecchia.
Penso di conoscere quel vicolo. Il taglio della foto mi permette di
cogliere alcuni particolari.
Comincerò da lì, gli dico.
Prima finisci di bere Tenente, fa lui. Come sempre, ha ragione. Però
ho fretta ora. Prima di rientrare a casa farò un giro in quella zona. Con la
mia amata pistola. Magari qualcosa di buono salterà fuori.
Ciao ragazzo, dico a Endi poggiando una banconota sul bancone.
E gli altri?
Segna.
Le parole “Fanculo, sbirro!” mi accompagnano fuori insieme al caldo
del whiskey. Poi altre. Stai attento.
Il vicolo della foto non è lontano. Mi immergo nell’aria autunnale col
bavero alzato. Il vento bastardo cerca comunque di infilarsi tra le pieghe e
rodermi la carne. Fortuna che la camminata e qualche bel ricordo mi scaldano un
po’. Aiuta anche il whiskey di Endi.
Sono arrivato. Detesto i vicoli. Quale malvagio architetto ha pensato
di lasciare due metri e mezzo tra palazzi alti dieci piani? Cosa pensava di
ottenere? Non so, ma il risultato è una gorgo di immondizia urbana e umana,
dove si ammassano feci e topi. E persone masticate e sputate. Spazzate sotto il
tappeto splendente della metropoli. Strizzo gli occhi, per vedere qualcosa alla
luce fioca dei pochi lampioni. Un’ombra più scura delle altre è ferma appena
oltre il cerchio di luce. Sembra che mi guardi. Sembra una donna. Sembra che
indossi una sontuosa pelliccia. Ficco gli occhi nell’ombra. Mi rispondono
bagliori maligni e un pozzo nero.
Sei qui per me? Dice una voce femminile. Il timbro ha un eco
cavernosa, di ragnatele oscure e perdizione. Si, rispondo. Sono qui per te.
Estraggo la pistola.
___
un racconto noir di AGO
capolavoro :)
RispondiEliminasentiti responsabile
EliminaVeramente bello, sei bravissimo a collegare tra loro i racconti, a intrecciarli. Passa a leggere i miei racconti se e quando avrai tempo...
RispondiEliminaComplimenti ancora!
Grazie Chiara. Sto tenendo d'occhio il tuo blog...
EliminaBello, grande suspance
RispondiEliminaAnche io scrivo racconti di fantasia nel mio blog "disconnessi"
Ciao,
Franco
Grazie mille Franco. Non mancherò di dare un'occhiata.
EliminaDavvero bello, mi piace il suo stile.
RispondiEliminaGrazie Alessandro, che Yog Sothoth ti protegga!
Eliminace ne sarebbero di libri da scrivere sulla mitologia lovecraftiana e devo ammettere che è stato un passo fondamentale per la mia crescita letteraria.
EliminaIdem
EliminaBello, coinvolgente e oscuro. Complimenti
RispondiEliminaGrazie Luca, grazie del tuo apprezzamento. E del follow...
EliminaUno stile efficacissimo...complimenti!!
RispondiEliminaTi ringrazio Simone
EliminaLa serie di Dellastiara,si fa sempre più coinvolgente,sempre più interessante,AGO sai come far tenere col fiato sospeso il lettore, il racconto è pieno di colpi di scena incredibili.
RispondiEliminaMi piace l'impostazione all'americana,ove regna un'ambientazione scura e fatiscente,come se si respirasse l'aria dei vecchi polizieschi anni 50.
E adesso sotto con la quarta parte..
:-)
grazie Giuseppe.
EliminaIn effetti il noir anni cinquanta è una fonte importante.