martedì 16 aprile 2013

Un'ombra - racconto noir (Dellastiara, ep. 3)


Dopo che il Signor Sergio se ne è andato, mi vergogno a dirlo, apro le finestre e cambio l’aria dell’ufficio. Empatia, si. Quasi affetto, forse. Però a tutto c’è un limite.
L’aria del mattino è fredda. Mi aiuta a schiarirmi le idee. Getto un’occhiata all’orologio ma vedo che è troppo presto per andare al bar, così mi siedo sbuffando alla scrivania e attacco la pila delle scartoffie da smaltire. È parte del mio dovere.

Mi scopro più volte a guardare le lancette immobili. Il tempo sembra essersi fossilizzato. Leggo senza capire mentre la mia mente viaggia in altri luoghi. Le parole di quei rapporti non mi dicono nulla mentre i pensieri vagano incontrollati. Troppe volte i miei ricordi sono invasi dal sapore nero della paura. Troppe volte ho sentito il tocco gelido dell’ignoto. E quella risata ancora mi perseguita, senza darmi la speranza di venirne a capo.
Apro il cassetto chiuso a chiave. Prendo la bottiglia e tiro un lungo sorso di whiskey. Non dovrei, lo so.
Così arriva l’ora. Il buio ha invaso le strade ormai. Il freddo si è fatto ancora più feroce. Non importa. L’affronto per andare al bar. Al mio bar.
I neon rossi sono sempre lì, non tutti funzionano. Cazzo. Si deciderà prima o poi a sistemarli? L’insegna lampeggia Endì’s. Ma si illuminano solo le prime tre. È la fine, forse.
Entro.
Vicino alla finestra una figura solitaria è illuminata di rosso. Tiene in bocca una sigaretta home made. Sul tavolo fogli e un bicchiere mezzo pieno di liquido giallastro. Ghiaccio mezzo sciolto.
Al bancone sono seduti due tizi, che in silenzio sorbiscono la loro dose di inutili sogni. Di là dal banco il barman lustra qualcosa. Senza ottenere un gran risultato, però.
Alza gli occhi e mi guarda. Ehi, dice.
Ciao Endi, rispondo. Hai voglia di quattro chiacchiere?
Non molto, tenente.
Nel locale una musica strana si diffonde come miele nell’acqua. Wish you where here, dicono di Syd. Il tizio che era seduto alla finestra sta tornando al suo tavolo dopo aver dato da mangiare qualche centesimo al Juke Box.
Mi siedo al banco. Endi mi serve un whiskey e una birra. All’americana.
Allora, dico, è sparito un tizio. Un barbone. Mi vergogno subito di aver usato quel termine. Ma tale è. O era.
Si faceva chiamare Lucky il fortunato. Pare che spesso girasse insieme ad un altro tizio di nome Sergio. Lucky è così e così (lo descrivo) e Sergio così e cosà.
Ah, fa Endi col suo accento. Non mi sono nuovi. Mi volta le spalle. Guarda la parete dietro il banco che è tappezzata da fotografie. Sono quei bocconi di mondo che lui ha scelto e che si tiene stretti. Così da assaporarli con calma. E magari condividerli. In una di queste foto due uomini sono vicini, nel freddo. Uno più vecchio. Sono loro? dice Endi. Si, rispondo, ma la foto è vecchia.
Penso di conoscere quel vicolo. Il taglio della foto mi permette di cogliere alcuni particolari.
Comincerò da lì, gli dico.
Prima finisci di bere Tenente, fa lui. Come sempre, ha ragione. Però ho fretta ora. Prima di rientrare a casa farò un giro in quella zona. Con la mia amata pistola. Magari qualcosa di buono salterà fuori.
Ciao ragazzo, dico a Endi poggiando una banconota sul bancone.
E gli altri?
Segna.
Le parole “Fanculo, sbirro!” mi accompagnano fuori insieme al caldo del whiskey. Poi altre. Stai attento.
Il vicolo della foto non è lontano. Mi immergo nell’aria autunnale col bavero alzato. Il vento bastardo cerca comunque di infilarsi tra le pieghe e rodermi la carne. Fortuna che la camminata e qualche bel ricordo mi scaldano un po’. Aiuta anche il whiskey di Endi.
Sono arrivato. Detesto i vicoli. Quale malvagio architetto ha pensato di lasciare due metri e mezzo tra palazzi alti dieci piani? Cosa pensava di ottenere? Non so, ma il risultato è una gorgo di immondizia urbana e umana, dove si ammassano feci e topi. E persone masticate e sputate. Spazzate sotto il tappeto splendente della metropoli. Strizzo gli occhi, per vedere qualcosa alla luce fioca dei pochi lampioni. Un’ombra più scura delle altre è ferma appena oltre il cerchio di luce. Sembra che mi guardi. Sembra una donna. Sembra che indossi una sontuosa pelliccia. Ficco gli occhi nell’ombra. Mi rispondono bagliori maligni e un pozzo nero.
Sei qui per me? Dice una voce femminile. Il timbro ha un eco cavernosa, di ragnatele oscure e perdizione. Si, rispondo. Sono qui per te.
Estraggo la pistola.

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un racconto noir di AGO

16 commenti:

  1. Veramente bello, sei bravissimo a collegare tra loro i racconti, a intrecciarli. Passa a leggere i miei racconti se e quando avrai tempo...
    Complimenti ancora!

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    1. Grazie Chiara. Sto tenendo d'occhio il tuo blog...

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  2. Bello, grande suspance
    Anche io scrivo racconti di fantasia nel mio blog "disconnessi"

    Ciao,
    Franco

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    1. Grazie mille Franco. Non mancherò di dare un'occhiata.

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  3. Davvero bello, mi piace il suo stile.

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    1. Grazie Alessandro, che Yog Sothoth ti protegga!

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    2. ce ne sarebbero di libri da scrivere sulla mitologia lovecraftiana e devo ammettere che è stato un passo fondamentale per la mia crescita letteraria.

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  4. Bello, coinvolgente e oscuro. Complimenti

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    1. Grazie Luca, grazie del tuo apprezzamento. E del follow...

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  5. Uno stile efficacissimo...complimenti!!

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  6. La serie di Dellastiara,si fa sempre più coinvolgente,sempre più interessante,AGO sai come far tenere col fiato sospeso il lettore, il racconto è pieno di colpi di scena incredibili.
    Mi piace l'impostazione all'americana,ove regna un'ambientazione scura e fatiscente,come se si respirasse l'aria dei vecchi polizieschi anni 50.
    E adesso sotto con la quarta parte..
    :-)

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    1. grazie Giuseppe.
      In effetti il noir anni cinquanta è una fonte importante.

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